Diffondiamo da Napoli Monitor del 29 maggio 2015
Chi è Ada Colau? Sui giornali italiani se ne leggono tante: Podemos vince a Barcellona, un’okupa al potere, sarà una rivoluzione. È chiaro che siamo in un momento di grandi rivolgimenti politici e che le sorprese sono all’ordine del giorno. Ma vale forse la pena di ripercorrere la storia delle proteste di Barcellona degli ultimi tempi, anche prima degli Indignados, per avere un’idea più chiara di quali sono le potenzialità e i rischi di questa nuova situazione.
Sono sempre felice di rispondere a chi in questi giorni mi chiede cosa ne penso di Ada Colau. Ho vissuto dieci anni a Barcellona, nei movimenti okupa e per il diritto alla casa. Ada per me è legata agli inizi: il 2002, il 2003, un fermento incredibile che investiva tutta la città, le ruspe imperversavano al Raval, nel centro storico, e a Poblenou, vecchio quartiere industriale. Il comune sembrava aver dichiarato guerra alla popolazione, e la data del Forum delle culture 2004 si avvicinava. La città doveva “prepararsi al grande evento”, e anche noi ci preparavamo giorno e notte. La ferita del G8 di Genova era ancora fresca e gli appuntamenti internazionali contro la globalizzazione si moltiplicavano: i campi No Border, i controvertici, i Social Forum.
In un piccolo ufficio nel quartiere di Gràcia ci riunivamo con altri collettivi della città. Io facevo parte di Indymedia Barcellona, il nodo locale della rete di controinformazione nata nel ’99 a Seattle; e tra le persone con cui condividevamo lo spazio c’erano i collettivi che mischiavano l’intervento artistico e la lotta politica, in cerca di linguaggi nuovi per rompere le barriere dei ghetti della protesta. Nei cortei antiglobalizzazione facevano parte dei blocchi rosa, che cercavano modalità diverse di protesta, sia rispetto alle manifestazioni ortodosse che rispetto all’autorganizzazione in piccoli gruppi a volto coperto (quelli che cominciavano a chiamarsi black bloc). Uno di questi gruppi era YoMango, che promuoveva il furto “creativo” nelle grandi catene di moda, rivendicando anche per chi protestava un’estetica più accattivante rispetto ai classici squatter con le magliette a righe e i jeans stretti decolorati. Credo di aver visto Ada per la prima volta in questo tipo di ambiente: erano okupa, ma erano diversi, volevano comunicare con il resto della città, non rimanere chiusi nel ghetto.
A me allora questa idea non destava grande simpatia. A Barcellona i movimenti stavano vivendo un periodo di enorme crescita: occupazioni di centri sociali, occupazioni abitative, iniziative pubbliche autorganizzate di grande rilievo. Ma ciò che più mi colpiva era la grande fluidità che esisteva tra i diversi ambiti. C’erano, certo, anarchici, indipendentisti, punk, universitari, mediattivisti; ma la sensazione che avevo era di una forte permeabilità tra questi circoli, e di una capacità di lavorare insieme al bisogno, nonostante le differenze. Indymedia Barcellona, per esempio, in quegli anni era assolutamente trasversale; riusciva a mettere in contatto mondi diversi all’interno delle alternative politiche radicali, che nella sua colonna destra discutevano a colpi di centinaia di post al giorno. E tutto gestito orizzontalmente, con software liberi e computer riciclati, senza finanziamenti, senza padroni. Facebook e Twitter erano inimmaginabili all’epoca. Così, a molti di noi sembrava assurda anche l’idea di barattare tutto questo, di togliere risorse preziose a questa grande costruzione collettiva di alternative, con l’ansia di comunicare “fuori”, alla gente normale, a chi guardava la televisione e usava windows.
Poi è nato Miles de viviendas. Ore e ore di conversazione con amici e amiche per capire cosa ne pensavamo di questo progetto. C’erano state la grandi manifestazioni contro la guerra in Irak, il 15 febbraio 2003: la manifestazione di Barcellona era stata nominata anche dal presidente Bush; qualche settimana dopo avevamo occupato tre piazze della città, accampandoci con le tende e i furgoni per bloccare la città, per bloccare la guerra. E Ada faceva parte di un gruppo che usava la strategia dell’occupazione degli edifici vuoti, non per viverci, ma per dimostrare l’assurdità del sistema. In un pomeriggio, occuparono quattro palazzi, uno dietro l’altro. Azioni spettacolari, emozionanti, presto riprese dai giornali, spesso accompagnate da un discorso politico chiaro, molto legato ai testi del filosofo di ascendenza negriana Santiago López Petit. Ma gli accampamenti nelle piazze durarono un mese intero, e i giornali smisero presto di parlarne, più propensi a parlare di queste azioni “mediatiche” che della tenacia di chi cercava di mantenere la posizione.
Ma Miles de viviendas era un progetto serio. In pochi anni aprirono moltissimi spazi, sia fisicamente con lo strumento dell’occupazione, che sul piano della comunicazione. Usavano il video, l’ironia, la grafica, in modo più spregiudicato rispetto all’ortodossia dei movimenti “classici”. Così creavano relazioni inedite con altri settori sociali, col rischio di risultare superficiali o ambigui a chi si preoccupava invece della coerenza e della continuità dei progetti politici. C’era però una continuità di scala diversa, che si delineava sempre più chiara nel corso degli anni. E poi, un’infinità di battaglie fatte insieme, alcune storiche, come il pijama party dentro il negozio di Ikea per rendere visibile il nostro bisogno di casa. Ada era una dei molti, all’interno di un settore di movimento che lavorava più di altri con il discorso, con la provocazione, con la comunicazione. Non mi ricordo grandi conversazioni con lei; sì invece dei momenti di tensione, come quando nel 2004 Miles de viviendas “importò” a Barcellona da Milano la manifestazione del May Day, con le sue divisioni tra gli autonomi e i disobbedienti dell’epoca. Evidentemente, almeno per me, un referente sbagliato, per una città con un movimento così forte e coeso come quello che avevamo a Barcellona. O quando invitarono a parlare Sandro Medici, che proponeva una strategia di negoziazione delle occupazioni simile a quella che il Comune di Roma stava portando avanti con i centri sociali. Una vera bestemmia, lì dove le occupazioni ancora mantenevano il loro enorme grado di autonomia e combattività.
Non so esattamente come tutto questo si è pian piano radicato in alcuni quartieri. C’è stata di mezzo la resistenza contro il Forum 2004, che dovrebbe essere ancora un modello di lotta contro un “grande evento”, anche in tempo di Expo 2015: invece di un contro-forum, avevamo creato un’assemblea di resistenze, che coordinava le diverse azioni, tutte di matrici diverse, ma che cercavano di tenere un fronte comune. Poi Miles occupò alla Barceloneta, vicino alla spiaggia; e cominciò un lavoro costante con alcuni abitanti della zona, contro gli sfratti e la gentrificazione del quartiere. A partire da quegli anni, molti di noi cominciarono a concentrarsi su un territorio particolare: è allora che ho cominciato la mia attività nelle casas baratas del Bon Pastor, un altro quartiere sotto sfratto e in procinto di essere demolito, questa volta in periferia. Probabilmente è attraverso la Barceloneta che Ada e alcuni del gruppo di Miles si avvicinarono a un’istituzione importante della città: la FAVB, la Federazione dei comitati di quartiere di Barcellona. La FAVB, nata negli anni Settanta con il grande fermento associativo alla fine della dittatura, era passata per alterne vicende; nel 2004 si era schierata decisamente contro il Forum delle culture e contro il sindaco Joan Clos, e negli anni immediatamente prima della crisi immobiliare aveva appoggiato le proteste di molti quartieri contro gli sfratti e le demolizioni. Ma in altri casi – come in quello di Bon Pastor, in cui mi ero intanto trasferito – la loro posizione era più filo-istituzionale. Quanto più mi addentravo nelle sofferenze della parte più marginale della popolazione della città, nella violenza subita a ogni demolizione, a ogni sfratto, tanto più sentivo che i movimenti più “in”, tra cui Miles e la FAVB, avevano ben poco interesse nel mettere in luce certe contraddizioni.
A un certo punto, con uno strano rivolgimento politico, Ada Colau entrò nella FAVB. Alcuni degli attivisti principali di Miles, e altri del loro circolo più vicino, presero in mano la Federazione. Visto da Bon Pastor, questo cambiamento apriva grandi speranze, ma non tardò a rivelarsi un flop: le posizioni della Federazione non cambiarono di una virgola. Erano tempi in cui era più facile dare giudizi definitivi. Ma stava iniziando l’epoca degli Indignados – in Spagna si conosce più come “15M” – che portò un rivolgimento completo di tutti i referenti. Fu allora che Ada cominciò a spiccare come leader carismatica. Da qualche anno aveva creato la PAH, che stava riuscendo dove nessuno era riuscito, applicando agli sfratti di abitanti comuni quelle stesse logiche e reti di solidarietà che esistevano tra i centri sociali e le case occupate. “Si nos tocan a uno, nos tocan a todos”, si diceva in occasione degli sgomberi delle case occupate, accorrendo in massa all’alba per prevenire il desalojo; ma poi, quando la polizia doveva sfrattare anziani abitanti dei quartieri, molto spesso era difficile ottenere l’appoggio di più di un pugno di amici. Il lavoro della PAH fu impressionante, e portò molti di quelli che avevamo criticato l’orientamento “mediatico” del gruppo di Ada a riconsiderare il giudizio. Anche perché il 15M aveva veramente scombinato le carte, e tanti discorsi che per un lungo periodo erano stati marginali, interni a un ghetto, all’improvviso erano diventati slogan di massa: no allo strapotere delle banche, non siamo burattini nelle mani dei politici, e così via.
Quando Ada cominciò ad affermarsi come figura politica di primo piano, era già circondata da quest’aura di ammirazione conquistata con la PAH. È vero che le richieste della PAH erano senza dubbio minime: abrogare l’incredibile legge sui mutui, eccezione in Europa, che prevede che chi non può pagare il mutuo mantiene il debito con la banca dopo aver perso la casa; ma la quantità di giovani famiglie che a Barcellona si trovavano in quest’assurda situazione di semi-schiavitù, accampati dai genitori con decine di migliaia di euro di debito e la minaccia di vedersi togliere anche la casa dei genitori (in genere presentata come garanzia per accendere il mutuo), erano una ragione più che sufficiente per appoggiare una lotta di questo tipo. Nei suoi discorsi pubblici – memorabile un intervento al Congresso dei Deputatiqualche anno fa – Ada dimostrava di saper combinare la passione politica, i contenuti di base che esprimevano i movimenti sociali da cui veniva, con una competenza e una professionalità assolutamente uniche. Così, la crescita del movimento Guanyem Barcelona riuscì a rimettere insieme molti settori della società catalana che erano stati divisi artificialmente durante la breve epoca in cui l’indipendentismo era tornato in primo piano (la rivendicazione indipendentista di base non si è mai spenta a Barcellona, ma di tanto in tanto le élite hanno cercato di manipolarla per distogliere l’attenzione da altri processi sociali).
Purtroppo, però, la creazione di un partito è un’operazione diversa dalla nascita di un movimento. Così, nel tentativo di fare di Guanyem Barcelona il referente per tutta un’area politica che aveva partecipato o guardato con simpatia al 15M, è emersa un’altra contraddizione: il rapporto con l’antico partito comunista catalano, Iniciativa por Catalunya-Verds. Pur avendo delle basi ben radicate nei quartieri, ICV era stata al potere durante gli anni duri degli sfratti e delle trasformazioni urbane; subordinata al PSC (i socialisti catalani), aveva appoggiato il sindaco Joan Clos nella celebrazione del Forum delle Culture, nella demolizione di Poblenou, nella svendita del centro storico al turismo, e nell’eliminazione di Bon Pastor e di tante altre zone popolari della città. Così, tra i candidati della lista di Ada, sono apparse figure ambigue, come quella di Jordi Borja, urbanista, che era stato un personaggio chiave nella promozione internazionale dell’infame Modello Barcellona, con cui si cercava di esportare ad altre città la particolare combinazione di accentramento di capitali privati e disprezzo istituzionale per la popolazione che aveva trasformato Barcellona in una vetrina del nuovo capitalismo di sinistra.
Nella storia politica della Spagna, quasi sempre quelle che dall’esterno sembrano rivolgimenti politici di grande portata, da dentro rivelano la sostanziale continuità di una élite politica saldamente radicata, capace di trasformismi retorici, ma profondamente, crudelmente conservatrice. La stessa transizione dal franchismo alla democrazia può essere letta così, se si conoscono le vicende politiche degli anni Settanta; stessa cosa per la vittoria dei socialisti di Zapatero, che in Italia venne celebrata come un modello per le sinistre, ma a Barcellona rappresentò l’inizio di una nuova offensiva contro la città. Se anche Guanyem e Ada Colau sindaco diventeranno solo un cambiamento di facciata per mantenere il potere nelle stesse mani, lo vedremo con il tempo. Quello che so, è che lei è forte, brava e in buona fede, a differenza di tutti i politici che l’hanno preceduta; e che in certi ambienti della città la sua elezione desta grandi preoccupazioni. Se riuscirà a portare un cambiamento reale nella politica spagnola, che sta vedendo una recrudescenza delle restrizioni alla libertà d’espressione e della logica securitaria, però, non dipenderà tanto da lei, quanto della capacità dei movimenti di mantenersi vivi e attivi, senza delegare e senza abbassare la guardia. (stefano portelli)